La II Guerra Mondiale

La seconda guerra mondiale vide gli alpini impegnati inizialmente sul confine francese durante la battaglia delle Alpi del giugno 1940, dove quattro divisioni Alpine erano
schierate in zona di guerra: la Divisione Taurinense schierata sul confine alla testa della Dora Baltea, la Tridentina in seconda linea nella stessa vallata,
con alcuni battaglioni Alpini costituiti all'atto della mobilitazione; in riserva erano la Cuneense e la Pusteria, rispettivamente in valle Gesso e val
Tanaro. Questi reparti furono inquadrati nel Gruppo Armate Ovest forte di 315.000 uomini lungo tutto il confine. Nonostante le forze preponderanti, le
unità italiane furono chiamate ad operare in condizioni precarie e pregiudizievoli in quanto, soprattutto per gli alpini di origine piemontese, il
disagio fu acuito dalla constatazione delle ripercussioni sociali ed economiche sulle popolazioni civili.

Alpini sul fronte greco-albanese

Inoltre migliaia di truppe male addestrate e mal equipaggiate di mezzi e armamenti si trovarono a combattere in un terreno
impervio e contro un sistema difensivo di prim'ordine attrezzato con un complesso di oltre 400 opere servite da un'ottima rete ferroviaria e stradale.
Il 21 giugno arrivò l'ordine di attacco, e le divisioni Tridentina, Cuneense e Pusteria furono spostate nei rispettivi teatri di scontro; la Tridentina fu
spostata in prima linea assieme alla Taurinense con il compito di penetrare verso Bourg St. Maurice dal colle del Piccolo San Bernardo, mentre le altre due
divisioni ebbero il compito di penetrazione nel settore Maira-Po-Stura. Ma nella notte tra il 24 e 25 giugno, appena tre giorni dopo l'inizio delle
operazioni per le divisioni alpine, fu firmato l'armistizio con la Francia. Nell'ottobre dello stesso anno le divisioni Cuneense, Tridentina, Pusteria e la
Alpi Graie furono spostate sul fronte greco-albanese dove era già presente
Reparto di alpini sul fronte greco-albanese

la Julia,che fu anche la prima a compiere azioni di guerra nel settore. L'invio degli alpini avvenne a causa dello sfondamento del fronte difensivo italiano sulla
Vojussa, l'avanzata greca minacciava di raggiungere l'Adriatico e ricacciare oltremare le truppe italiane. Solo grazie all'afflusso di reparti di rinforzo,
tra cui le tre divisioni alpine, fu possibile stabilire una posizione di resistenza in grado di reggere fino alla primavera successiva. La Julia venne
impiegata nei primi attacchi, ma la disorganizzazione dei comandi fece sì che in appena un mese di difficoltose avanzate, la Julia fu costretta a ritirarsi e
a difendersi dalle incursioni greche. A fine dicembre da 9000 uomini la Julia rimase con sole 800 unità. La campagna di Grecia fu un fallimento per l'Italia,
e solo l'intervento dell'alleato tedesco nella primavera 1941 diede una svolta alle operazioni. Per assicurarsi il controllo dei Balcani in previsione
dell'invasione dell'Unione Sovietica, Adolf Hitler e il suo Stato Maggiore misero a punto l'operazione Marita. L'attacco italo-tedesco partì il 6 aprile e
il 23 la Grecia chiese l'armistizio, armistizio che giunse dopo un enorme tributo di sangue per gli alpini, con 14.000 morti, 25.000 dispersi, 50.000 feriti e 12.000 congelati
Nel 1942 per decisione di Mussolini e dell'alto comando venne potenziato il corpo di spedizione inviato sul fronte orientale costituendo la cosiddetta Armata
italiana in Russia (ARMIR) forte di oltre 200.000 uomini; tra questi, 57.000
costituivano il Corpo d'Armata alpino, composto dalle Divisioni Cuneense, Tridentina e Julia, per un totale di 18 battaglioni alpini, nove gruppi
d'artiglieria alpina e tre battaglioni misto genio. Invece di essere schierato sul Caucaso, come inizialmente previsto dai piani dei comandi italo-tedeschi,
il Corpo d'armata alpino venne invece impiegato nella difesa del Don dove gli alpini giunsero nella prima settimana del settembre 1942 passando alle
dipendenze dell'8a Armata italiana. L'ambiente operativo del Don presentava caratteristiche assolutamente diverse da quelle in cui gli alpini erano
addestrati a muoversi; una vasta pianura uniforme e priva di rilievi montuosi, dove un esercito invasore avrebbe dovuto disporre di forze corazzate e
motorizzate per trarre beneficio da una fondamentale mobilità sul piano tattico. Il Corpo d'Armata alpino invece disponeva di 4800 muli e 1600 automezzi che sarebbero stati
Alpini in marcia nella steppa

largamente insufficienti anche in spazi operativi molto più ristretti; mancava inoltre tutto l'armamento anticarro, l'artiglieria contraerea e i mezzi di trasmissione, costruiti per l'impiego in
alta montagna, avevano una potenza limitata e non riuscivano a stabilire i corretti collegamenti sulle grandi distanze. In generale tutto l'armamento in
dotazione agli alpini fu gravemente insufficiente, non furono forniti spazzaneve, né mezzi cingolati, né slitte, né lubrificanti antigelo né
vestiario adeguato né armi automatiche in grado di resistere alle gelide temperature russe. La destinazione del Corpo d'Armata alpino sul Don non era
nato da un piano strategico e organico, ma dall'emergenza determinatasi su tutto il fronte russo nell'estate-autunno 1942 e accentuatasi nell'inverno
successivo sino alla rotta dei reparti invasori nel dicembre-gennaio. Gli alpini dirottati sul Don arrivarono appena in tempo per essere schierati in
prima linea, venire accerchiati dall'avanzata dell'Armata Rossa ed essere costretti a una ritirata epica e tragica nella quale caddero oltre i due terzi degli uomini. Nell'insieme, agli
Alpini lungo il fronte del Don

alpini spettava un settore di 70 km, per cui non fu possibile tenere una divisione di riserva. Il primo periodo di permanenza in linea degli alpini fu soprattutto di "stasi operativa",
senza azioni di rilievo né da una né dall'altra parte, e gli alpini si preoccuparono di garantirsi condizioni di sopravvivenza in vista dell'inverno
con la costruzione di ricoveri, postazioni coperte, approvvigionamento di ogni tipo di materiale, scavati fossati anticarro, minate vaste aree e
posizionamento di reticolati e postazioni di tiro. Dopo aver sconfitto l'esercito rumeno, accerchiato la 6a Armee tedesca a Stalingrado nel novembre
1942 e distrutto gran parte dell'ARMIR nel dicembre, il 14 gennaio 1943 l'Armata Rossa sferrò la poderosa offensiva Ostrogorzk-Rossoš e sbaragliò le
truppe ungheresi e tedesche schierate sui fianchi del corpo alpino che quindi venne rapidamente circondato dalle colonne corazzate nemiche; le tre divisioni
Alpine furono costrette a ripiegare con una lunghissima marcia tra le gelide pianure russe, subendo perdite altissime. Due delle divisioni (la Julia e la
Cuneense) vennero infine intrappolate a Valujki e costrette alla resa, mentre i superstiti della divisione Tridentina riuscirono ad aprirsi la strada dopo una
serie di disperati combattimenti, tra cui il più noto è la battaglia di Nikolajewka, riuscendo a conquistare il paese e uscire dalla "sacca".
Le perdite complessive del Corpo d'armata alpino (divisioni alpine Julia, Cuneense e Tridentina e Divisione fanteria Vicenza) nella
Inverno 42-43 la ritirata

tragica battaglia superarono l'80% degli effettivi schierati sul fronte del Don: su una forza iniziale di circa 63.000 uomini si contarono 1.290 ufficiali caduti o dispersi,
39.720 soldati caduti o dispersi, 420 ufficiali feriti e 9.910 soldati feriti, per un totale di 51.340 perdite. Anche i generali Umberto Ricagno (comandante
della Julia), Emilio Battisti (comandante della Cuneense) ed Etvoldo Pascolini (comandante della Vicenza) caddero prigionieri. Ma né cifre né cronologie sono
però sufficienti a rendere giustizia dei drammi, del coraggio e della forza dimostrati dai superstiti, dai caduti e da chi fu costretto alla resa. Assai
più efficace della storiografia, la letteratura ha consegnato i fatti accaduti in Russia alla memoria futura con libri come "Centomila gavette di
ghiaccio" e "Nikolajewka: c'ero anch'io" di Giulio Bedeschi (ufficiale medico), "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern e
"I più non ritornano" di Eugenio Corti; tutti autori che parteciparono alla ritirata.


Fonte Wikipedia.